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Stefano Liberti autore di I signori del cibo nella sua opera ricostruisce la filiera di quattro cibi simbolici: soia, carne di maiale, pomodoro concentrato e tonno descrivendo il quadrilatero infernale; un quadro che evidenzia come il sistema alimentare sia ormai diventato una branca della finanza che ha deciso di puntare sul business.

Ho iniziato a pensare a “I signori del cibo” mentre lavoravo a “Land grabbing”, soprattutto quando ho cominciato a notare la presenza di gruppi estranei al sistema agroalimentare nel processo di acquisizione delle terre. Come gruppi finanziari o multinazionali di vario genere. In particolare, ho notato un interesse volto al controllo dell’intera filiera, dalla produzione alla trasformazione, alla commercializzazione. Così ho cercato di seguire la filiera di quattro prodotti paradigmatici, tra i più consumati al mondo: la carne di maiale, la soia (che è anche mangime per i maiali), il tonno in scatola e il pomodoro concentrato.

Per ricostruire la filiera ho viaggiato in giro per il mondo e ho incontrato diverse persone, come il piccolo produttore schiacciato dal grande industriale che fa economia di scala. La tesi finale del libro è che molti meccanismi in atto oggi non sono assolutamente sostenibili nel lungo periodo”, ha dichiarato Stefano Liberti, scrittore e giornalista (ex manifesto, penna di Internazionale e autore di documentari come A sud di Lampedusa e Container 158).

I signori del cibo” di Stefano Liberti non è un libro a km zero. È piuttosto un’inchiesta globale su come il capitalismo alimentare, non diversamente che in altri settori, passi oggi sopra la testa degli Stati e soprattutto dei consumatori. Per tesserne le fila, Liberti ha ricostruito la filiera di alcuni prodotti di larghissima diffusione: dalla carne di maiale alla soia, passando per il tonno e il pomodoro.

La responsabilità sociale e ambientale, così, non riguarda soltanto chi produce, ma anche chi consuma.  Siamo anche noi gli artefici dell’inarrestabile catastrofe ecologica e culturale presente. Leggendo questo libro ci rendiamo conto di come non solo la riproposizione della tradizione gastronomica nostrana, ma anche l’esplorazione della multiculturalità del gusto a scopi commerciali, nascondano il vero prezzo della globalizzazione.

Infatti, i modi odierni del nostro consumo alimentare, largamente proposti e guidati dalla grande distribuzione e dai grandi marchi multinazionali, hanno effetti irreversibili sulla fauna ittica degli oceani e devastanti sulle foreste africane e amazzoniche e sull’accesso recente di centinaia di milioni di consumatori cinesi (ma da più tempo anche europei e nordamericani) alle proteine della carne di maiale. Un’inchiesta che fa luce sui giochi di potere che regolano il mercato del cibo, dominato da pochi colossali attori sempre più intenzionati a controllare ciò che mangiamo e a macinare.

Il viaggio dell’autore

L’autore è andato nei luoghi prescelti dagli speculatori: dall’Amazzonia brasiliana dove ci sono le più estese zone di monocultura di soia, agli Oceani divenuti fonti dell’enorme quantità di tonno che finisce nelle scatolette di tutti i pressi, agli Stati Uniti dove gli allevamenti industriali dei suini garantiscono di poter far fronte all’enorme richiesta delle loro carni, fino alla Puglia, in Italia dove i lavoratori ghanesi lavorano alla coltura dei pomodori “di massa”.

La concentrazione a favore di poche gigantesche imprese della produzione e distribuzione della carne di maiale in Cina, così, è frutto di provvedimenti normativi, sgravi fiscali e prestiti, tesi a favorire l’aumento del consumo interno e dell’esportazione verso il mercato nordamericano; l’attacco alla biodiversità dell’Amazzonia è facilitato dall’assenza di misure di legge contro la deforestazione e l’espansione della monocultura dea soia; l’irreversibile impoverimento dell’ecosistema marino del Senegal è accelerato dalle politiche degli stati asiatici ma soprattutto dell’Unione europea (che ha acquistato diritti di pesca un po’ dappertutto in Africa occidentale).

E infine i pomodori: alla scoperta delle fonti del ketchup della Heinz, Liberti ci porta dagli Uiguri, un popolo di lingua turca e religione musulmana che vive in Xinjang, una regione a cui si devono i due terzi della produzione del maggiore esportatore mondiale di pomodori e derivati del pomodoro, la Cina. E dallo Xinjiang Liberti ci riporta nella patria del San Marzano, perché è proprio al porto di Salerno che arrivano i sino-pomodori ad uso degli imprenditori del San Marzano dop dell’agro sarnese-nocerino.

Un giro infinito

Ed è seguendo uno di questi imprenditori che ci ritroviamo con Liberti in un mercato di Accra, nel Ghana, dove il pomodoro uiguro è infine venduto e consumato come salsa “Made in Italy”. E dal Ghana torniamo accompagnando gli ex-contadini e pescatori dell’Africa Occidentale, ormai rovinati, nel loro viaggio attraverso il Sahara ed il Mediterraneo, per finire nei ghetti dei raccoglitori-schiavi delle campagne foggiane.

Qui si chiude il cerchio della globalizzazione e del grande capitale alimentare: è proprio il contadino ghanese a raccogliere quel pomodoro che sarà esportato nel suo paese azzerandone la produzione agricola locale e costringendo i suoi fratelli a raggiungerlo nel ghetto pugliese.

Ma nel uo viaggio Liberti ci parla anche di chi resiste al disastro, di note di speranza nel futuro, come ad esempio quella delle sei famiglie di piccoli pescatori che ancora vivono a San Diego, in California, pescando nel rispetto del mare e della sua biodiversità. Non sono i superstiti di un mondo che fu, suggerisce Liberti, ma dei pionieri dell’unico futuro sostenibile.

Dunque, ragiona Liberti, è importante cambiare rotta perché, con l’aumento della popolazione mondiale, le risorse si faranno sempre più scarse e diventerà sempre più urgente ripensare il modello di produzione e di consumo.

Editor: Alessandro Rosci

Come visto su Fashion News Magazine

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